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«Or d'una sola cosa fa bisogno e Maria
ha scelto la buona parte, la quale non le
sarà tolta».
S. Luca, X, 42.
Va sorgendo da qualche tempo anche in Italia, una reazione all'intellettualismo e un moto verso la vita e l'azione. Nel primo numero del Leonardo, Giuliano il Sofista parlò della Vita trionfante e nell'ultimo io posi come nuovo carattere e compito della filosofia l'attitudine attiva, il rifare il mondo invece di contemplarlo. In questo stesso fascicolo troviamo negli scritti di due giovanissimi che ci san cari, Ortensio e Marcellus, delle velleità di azione, di sortita, di vagabondaggio non più sognato via reale. M' è venuto per questo il pensiero di vedere più da presso quello che può essere l'azione per noi ed ho preso le mosse da una malinconica e bella confessione dell'amico G. A. Borgese ch'egli ha intitolala il Vascello Fantasma, apparsa nel fascicolo di febbraio della nuova rivista Hermes. Le pagine che seguono tendono solo a provocare una più chiara coscienza di queste confuse volontà giovanili.
Noi ci moviamo, dunque, verso l'azione. Un bel giorno ci siamo sentiti prendere dall'acedia dell'intellettualismo fine e superfine, ci siamo sentiti troppo ristretti fra le quattro mura delle nostre camere piene di fotografie e di carta stampata, ci siamo seccati a leggere delle parole e a scrivere delle parole. I nostri cenobi di sognatori, i nostri romitaggi di buddisti sofistici, le nostre torri non eburnee di poeti della strana melanconia, tutti quei luoghi che considerammo e volemmo rifugi inviolati delle nostre anime sdegnose e dei nostri spiriti adoranti, ci paiono ora delle gabbiuzze variopinte, asili di cantori sedentari, ma nemiche dei grandi voli. E abbiamo aperto gli occhi imbambolati dai sogni, noi giovini, e abbiamo visto che al di là delle nostre piccole camere e dei nostri piccoli libri c'è un mondo, un mondo vasto e clamoroso come un'agora in festa, che noi conosciamo soltanto attraverso i neri e ineleganti caratteri tipografici.
C'è accaduto forse, a noi giovini alchimisti di verità e di bellezze, come al vecchio Faust e ci ha tentati un incognito demonio?
Entrò forse nella nostra stanza un nero cane randagio, che ci fiutò sospettosi, ci venne attorno e meditò condurci fuori del nostro dominio cartaceo per far di noi più facilmente sua preda?
Non lo credo. Satana è troppo gentiluomo per tendere lacci a chi lo tiene in così alto concetto. Forse, anche, è stanco di noi e della nostra povera vita e non deve provare più gusto a tentarci.
Dev'essere stato per nostra spontanea volontà che ci siamo svegliati un mattino e abbiamo avuto voglia di uscir fuori a respirare e a muover le membra. Per ora noi stiamo preparando i sandali che calzeremo, stiamo cercando il bastoncino che ci reggerà nella via, e facciamo dei progetti. Non siamo usciti dalla letteratura. Facciamo ancora delle parole per dire che non vogliamo più parole e teorizziamo nostra bramosia antiteorica. Invece di agire veramente, riempiamo dei fogli per scrivere sull'azione.
Non è vero, amici miei, che tutto questo è un po' ridicolo e molto triste? Noi stiamo qui proclamando che le parole son delle nemiche e delle fedifraghe, che la poesia è un decotto, che l'ideologia è un teatro di labili ombre, che vogliamo uscire dal nostro nido frasaiolo, dal nostro covo verbale, che vogliamo andare in giro per il mondo o su barche da pesca o in vascelli guerrieri o per lo meno come guide di piccole scimmie romantiche e poi, invece di prendere davvero il bordone del pellegrino, invece di brandire una spada, o salire sopra una tolda o sopra un cavallo, stiamo ancora qui, o tracciare dei segni e ancora dei segni, e fabbrichiamo delle frasi come ne abbiamo fabbricate, giuochiamo con dei concetti come abbiamo fatto fin qui.
Non c'è stata neppure, — non è vero, cari amici? —la più piccola velleità di sortita. Non abbiamo fatto neppure la prova generale della grande vita, come quando eravamo fanciulli, con dei cavallini di legno e delle trombette di terracotta. Non solo non abbiamo dominato e guerreggiato fra gli uomini ma non abbiamo ancora ucciso il più timido cervo per avere in casa dei trofei, nè fondato il più innocuo circolo perchè almeno ci facessero presidenti. E siamo troppo intelligenti oramai per gemere sulla malignità dei tempi, sulla bassezza dell'epoca e altri simili wertherismi che vanno bene a un Napoleone a Sant'Elena, ma farebbero ridere noi per i primi, noi giovinetti sognanti l'epopee fra le coltri.
Sappiamo che anche oggi, in questo mondo che ci affatichiamo, a chiamar mercantile e filisteo, ci sarebbero le grandi gesta da compiere, le grandi battaglie da vincere, le grandi moltitudine da dominare. Ma ci contentiamo di leggere delle memorie su Sigismondo Malatesta e dei libri su Bismarck, rileggiamo il Principe e andiamo a contemplare la bella e fiera statua del Colleoni. Abbiamo il culto dei condottieri nella intimità della nostra camera, facciamo la grande politica come passatempo privato. E certe volte non spingiamo neppure troppo in alto i nostri sogni. L'amico Bargese si contenterebbe di accostarsi, al tramonto, su di una barca peschereccia, alla costa, dove «un letto bianco lo attende, per dormire; due occhi buoni, per amare, un altare, forse, per inginocchiarsi.»
Come vedete un sogno da pescator di Bretagna: la barca, il letto, la moglie e la cappella. L'azione, di cui parliamo con tanta ansietà, si ridurrebbe ad acciuffare buon numero di sardelle, a generare sani figliuoli e a non perdere il timor d'Iddio e dei suoi santi.
Per me, veramente, è troppo poco. Non vorrei lasciare le mie navigazioni fantastiche, i miei perigli ideologici, le mie mille e una notte di alacre travaglio metafisico, penelopeo fin che volete, ma di una dolcezza sirenica, per rincantucciarmi in una casetta sul mare, circondato da reti e da marmocchi, colla donna dagli occhi buoni e coll'altare ben guarnito di trine e di fiori finti. Non vorrei, insomma, scendere dal vascello fantasma, che ha fatto così bella crociera, per ridurmi a far l'uomo normale di Cesare Lombroso, fruges consumere nato.
E pensate — cari amici — che quello che vuole «il pilota di tutte le sirti» lo facciamo, malgrado la nostra letteratura, tutti i giorni. Non siamo così straccioni da non possedere un letto e una casa e chi è di noi che non ha guardato dei dolci e profondi occhi e non ha pregato in qualche bella e antica chiesa? Non siamo degli uomini attivi, eppure abbiamo anche noi mormorato, sotto gli alberi che gittavano le loro ombre fresche o le loro foglie morte le parole antichissime che formano il tenue ponte tra le volontà della carne e le immaginazioni dello spirito, fra il cuore che ricorda e il cuore che non vuol sapere. Non siamo uomini di fatti eppure non abbiamo dimenticato gli altari dei nostri padri, abbiamo ancora il culto del bel sensualismo cattolico, ci piace ancora, all'ombra di una colonna, nell'oscurità delle navate, contemplare i gesti liturgici dei gravi uomini coperti di vesti variopinte e ricamate, mentre salgono con la musica le terribili parole, le voci della speranza celestiale, i ricordi estasiati della purezza, tra i fili lievi dell'incenso e il mormorio delle donne inginocchiate.
Queste sono le azioni che compiamo, e queste dovremmo desiderare? Ma non è forse per fuggire da questa monotona vita, da questa vita troppo vecchia, troppo imbelle, troppo usata, da questa vita che mostra le corde e le toppe della sua miserabilità mediocre ed eterna, che noi siamo saliti sui monti dello spirito e ci siamo chiusi nelle celle del raccoglimento? Non forse per la nausea del letticciuolo morale, dell'amore non profondo, dell'altare troppo lontano che siamo fuggiti via, come disertori famelici, nel deserto della contemplazione, a creare per nostra gioia un mondo meno solido ma pili degno? In questa nostra impazienza di tornare al mondo dell'atto, c'è forse, amici miei, un alcun che di nostalgia? Dopo aver vagato, Ulissi frenetici in cerca di isole di nebbie, tutti i mari dell'intelligenza, ci punge il desio del fuocherello paterno e della tremebonda campana del villaggio?
Per noi c'è dunque uno scampo, una via di salvezza. Lasciamo questi nostri satanici libri, queste fantasie da forsennati, questi scatti da riottosi imberbi; lasciamo che il mondo vada per la sua strada senza ire e senza curiosità, non ci curiamo di rifarlo, non ci curiamo di combatterlo. Una buona bisaccia sulle curve spalle, una profonda umiltà nello stanco cuore e torniamo, figliuoli prodighi, al paradiso dei poveri di spirito, nel paese della gente di garbo, intenti al dondolio della culla e all'elezioni municipali. Può darsi che la solida stima dei nostri concittadini ci porti sullo scranno del Consiglio del Comune e noi detteremo leggi; — può essere che la patria ci chiami a difenderla e noi ci faremo storpiare da buoni nazionalisti sui campi di battaglia. Noi conosceremo così finalmente la vita, noi miserabili scribacchiatori di sonetti e architetti di assoluti. E penseremo con ironica tenerezza alle nostre paladinate fanciullesche, quando ci pareva d'avere il cuore di rifar l'universo colle nostre mani, e di strangolare tutti i dragoni che ci ghignavano intorno.
Il vascello fantasma lo venderemo come legno vecchio e ci faremo fare un bel vascelletto «snello e leggero » da portar grano o da vincer regate. E da vecchi, invece di tessere nuove reti per afferrare il mondo, staremo a ricucire le vecchie reti, in mezzo ai garruli nipoti, dinanzi alla piccola casa, all'ultimo sole di ottobre....
Non per questo, mi sembra, o amici, noi salpammo nella nostra adolescenza a scoprir contrade nuove, e inforcammo il nostro balzano a percorrere istrane castella. Non per questo lasciammo le madri lacrimose alla nostra porta, mentre per la via divorata dal nostro desiderio i fanciulli che non sapevano ancora e i vecchi che non ricordavano più ridevano in coro alla nostra follia. Non per questo, diletti amici, divennero macre le nostre guancie e canuti anzitempo i nostri capelli, e s'impressero le rughe sulle nostre fronti.
Noi c'illudemmo di conquiste fanciullesche, — è vero — ma l'illusione ci fu dolce come la realtà e più che la realtà e dovremo rimpiangere lo stabile mondo di tutti? Le nostre costruzioni furono labili, i nostri assoluti si sfasciarono uno dopo l'altro come baracche da fiera, i nostri sistemi sparvero come larve fuggevoli — tutto ciò è vero — ma dovevamo forse preferire le cose resistenti, le cose durature, le statue massiccie che guardano scorrere il tempo dall'alto de' saldi piedistalli, sempre collo stesso sguardo da ebeti e il loro gesto troppo calmo? Il dilettantismo può essere vano, la sofistica può essere formale ma quanto ci hanno consolato di più della semivita tra borghese e plebea a cui eravamo condannati? Il nostro periodo letterario — lo chiamo così non nel senso stretto ma in quello amplissimo di verbale e immaginoso — ci ha purificati, ha messo fra noi e gli altri una zona incontaminata per salvarci dagli effluvi perniciosi. La solitudine sognante, la cavalcata don quijotesca, la navigazione spettrale è stata la grande lavanda del nostro spirito. La nostra stanza solitaria è stata il lazzeretto, nel quale abbiamo sfuggito il contagio. Ora noi ci riteniamo abbastanza immuni per scendere nella strada, al contatto dei gomiti brutali e al fiato delle bocche insipienti. E scendiamo pure, ma facciamo almeno che il nostro noviziato non sia perduto e moviamo verso l'azione con delle idee un po' diverse da quelle di un capomastro che si ritira dagli affari. Facciamo pure degli atti, ma dei grandi atti.
Il problema incomincia qui, cari amici. Noi siamo come coloro che volessero a tutta forza uscire da un giardino, pieno di fiori troppo effimeri e di alberi troppo caduchi, e spingessero insieme una grande porta per uscire alla campna, senza sapere cosa apparirà appena l'avranno varcata, se qualche florida solitudine o non piuttosto una landa selvaggia, coperta di cenere e abitata da serpi immondi.
Noi vogliamo tutti agire ma non sappiamo di qual genere abbiano ad essere queste nostre azioni. Siamo dei viaggiatori impazienti di partire che non si curano se vi sono dei cavalli da sellare o delle strade da percorrere. Noi disperdiamo così la nostra forza nell'intenzione dell'ignoto, senza sognare più e senza fare ancora. Noi creiamo in noi, come i mistici in cerca d'Iddio, la perfezione del vuoto.
Qualcosa di simile è accaduto a un uomo che vive accanto a noi, a un artefice che tutti ammiriamo e che ha rappresentato con un fasto inusato la cultura dilettantesca della seconda metà del secolo scorso, a Gabriele D'Annunzio.
Quest'uomo è stato pure assalito dal bisogno di agire; ha sognato, nelle sacre solitudini intorno all'Urbe, i destini del Re di Roma; a Venezia, nella febbre dell'esaltazione, ha visto sè stesso capitano di nuove giovinezze, e ha pensato ch'egli avrebbe più volentieri conquistato un arcipelago su qualche bella galera che trascorso la sua vita tra le carte e gli amori, ed ha sentito nel suo petto l'ansia delle moltitudini e il fato incalzante dei dittatori.
Quest'uomo ha sentito la voluttà della potenza, il desiderio della strage, la dolcezza del trionfo, l'estasi del vincitore e del duce. Egli ci ha detto, in versi scalpitanti e in immagini sontuose, le sue voglie e i suoi terrori, il suo bisogno di azione, di unità, la sua insofferenza del cerchio delle parole. Ebbene quest'uomo è stato, secondo un'immagine a lui cara, come colui che tende l'arco, ma nessuna freccia n'è scoccata a colpire nel segno o ad uccidere un nemico. Le sue cavalcate di vincitore son finite in caccie alla volpe, le sue rapine imperiali, in conquiste di duchesse o d'attrici; il suo dominio sulle folle in chiamate alla ribalta dopo un dramma fortunato.
Una volta quest'uomo è andato in quel consesso ove si dovrebbe parlare delle cose della patria e, dopo un gesto d'un momento, egli n'è uscito, non so se avvilito o nauseato. Egli è rimasto fino a oggi, questo affamato di azione, un uomo delle parole, un uomo delle grandi e delle belle parole ma niente di più.
Ora noi giovini vogliamo e dobbiamo sorpassare questo stadio della volontà verbale, quest'attitudine parenetica, quest'accademia della letteratura antiletteraria e del proponimento che riman sulla soglia. E per questo sarà bene che vediamo cosa ci piacerà intendere per quest'azione e se veramente il mondo dell'idealista o del sofista non sono attivi e come si potrebbe fare per scavalcarli o per compierli.
Nel suo Castillo interior Santa Teresa lasciò scritto che «Marta e Maria possono andare insieme, perché l'interiore opera nelle cose esteriori» e per una volta almeno perché vergognarci d'esser d'accordo con una santa?
Un atto è ciò che modifica esistente, è il passaggio al mutamento. Ogni uomo, in quanto non rimane immobile ma trasforma ciò che l'attornia e trasforma sè stesso, compie incessantemente degli atti. Ogni uomo, dunque, è attivo e l'azione appare sinonimo di vita.
Parrà strano che, tra uomini vivi, si vada cercando l'azione, dal momento che ciascun uomo che vive agisce? Non c'è ragione di meravigliarsi. Noi riserbiamo come contenuto di una parola la parte più acuta, più intensa di ciò che vuol significare. Per dolore poi intendiamo le forme più gravi non le piccole noie che pure rientrano in lui. Così accade dell'azione, la quale s'intende solo come grande e intensa azione, quasi si volesse dimenticare che azioni sono anche quelle che ogni momento vanno compiendo uomini oscuri.
Anche tracciare dei segni su della carta, anche scorrere gli occhi sopra segni scritti da altri, anche starsene meditabondi sopra una sedia, contemplando lo scorrere instancabile da pensieri e lo scorrere instancabile delle nuvole, è azione.
Chi non sapesse che di tali lievi modificazioni esterne direbbe che l'uomo che le fa non è attivo, intendendo che la sua attività è minima. Ma noi sappiamo che quelle mutazioni esteriori non sono che piccoli indici esteriori di maggiori mutazioni interiori. Sappiamo insomma che sotto l'uomo che scrive, che legge, che siede è lo spirito che vede, che incatena, che combatte, che sogna. Sotto l'increspatura della superficie c'è la tempesta del fondo, sotto la piccola vita esterna c'è la grande vita interna.
Questa vita interna fatta non di presentazioni ma di rappresentazioni, fatta cioè d'immagini e non di intuizioni, di ricordi e di rievocazioni più che di sensazioni e di percezioni, può essere ricca e varia e profonda come l'esterna. È, anzi, più libera e più capricciosa. Se da una parte impoverisce il mondo dell'intuizione e rende più pallida e più slavata la realtà, non più viva ma rivissuta, essa concede una più grande duttilità a tutte quelle combinazioni e trasformazioni che piacciono al nostro desiderio. La mente, come dicono, idealizza la natura. Infatti mette nelle cose quello che non c'è: l'ordine e il legame. Riesce a edificare, coi materiali che il mondo ci fornisce, costruzioni d'ogni specie, dalle capanne provvisorie che servono alle necessità pratiche alle torri maestose che piacciono all'estetica della ragione.
Non contenta di rifare il mondo esterno, la vita interna scopre l'uomo all'uomo, allarga Io spirito collo spirito, fa, insomma, quella scoperta del me, nella quale si avanzarono, venturosi Magellani, i mistici d'Iddio e i mistici dell'io. Ruysbroeck l'Ammirabile e Federigo Amici.
Essa ci dà così il modo di vivere le mille vite e i mille pensieri, ci concede i colloqui con quelli che scesero nei sepolcri, ci fa rivivere quello che non vivremo più, ci fa vedere quello che non vedremo mai. È la nostra guida in tutti i mondi, interprete di tutti i linguaggi, la conquistatrice di tutti gl'imperi, l'amica di tutte le anime. Per mezzo di qualche volume, per mezzo di pochi segni noi stringiamo nel nostro cuore l'intero universo.
Ma ecco il dubbio che nasce il giorno della virilità intellettuale, quando non ci basta più legger le storie di amore ma vogliamo amare, quando ci stanchiamo di leggere i canti degli eroi senza compiere qualche atto eroico: Questo universo che io, uomo di libreria, uomo di lettura, posseggo nella mia anima, è il vero, il reale, il solido universo? Non si tratta forse piuttosto di un'ombra ch'io ho tentato di abbracciare, di un fantasma che passa, di una larva fatta di suoni e contesta di parole? Io posseggo tutto, ma come colui che credesse d'essere il re del mondo perchè possiede un disegno del globo, io so tutto ma appunto per questo non posseggo intimamente, profondamente nessuna cosa.
Questa vita interna della quale io mi gloriavo, fanciullino superbo che il destino contentò con dei giuochi, è troppo verbale e troppo estesa, troppo parolaia e troppo dilettante. Io voglio le cose e non le parole, e voglio poche cose perché solo quando alcune idee escludono le altre possono tradursi in atto. Il verbalismo e il dilettantismo rendono vuota quella vita interna che mi pareva così ricca e così piena.
Ma se uomo interno si volgerà a considerare quella che si chiama vita esterna non sarà lieto nè desideroso di entrarci. Pochi sono gli uomini che fanno veramente delle grandi azioni per le quali sarebbe pur dolce lasciare i pigri scranni ove leggiamo i nostri maestri d'immagini e i nostri maestri d'idee. La vita esterna, la conquista sotto le sue forme, della ricchezza, delle donne, della potenza, è troppo spesso generata da oscuri istinti e da bestiali cupidigie perchè possa essere amata da uno spirito amante della grande vita. Monotona, bassa, incosciente essa appare a chi la guardi: non illuminata da quella luce intellettuale che ne fa un mezzo barbaro a un nobile fine. Ed è, anche, ristretta e limitata. La nostra potenza sulle cose è breve dinanzi al nostro desiderio. Noi non possiamo tutto ciò che vogliamo, e troppe volontà si trovan fermate dall'obbrobrioso muro dell'impossibile. La scienza, che ci serve in questa conquista delle cose, è troppo lenta e impacciata, ha bisogno di ricorrere a cento intermediari e a mille ordigni, non è celere, veloce, semplice, immediata come la potenza degli dei. La scienza è ancora troppo lentamente animalesca.
Noi, dei dell'indomani, abbiamo bisogno di più docili e pronti servi. Non ci può piacere la potenza effimera e faticosa della quale si compiacciono gli uomini dei fatti. Il sogno ci ha dato delle abitudini troppo grandi. Nella solitudine le nostre ali si sono terribilmente ingigantite e i voli dell'aquile cesaree ci sembrano starnazzamenti di galli impauriti. Quello di cui Cesare si potè contentare, il comando di trenta legioni, l'impero su qualche terra, non può bastare a noi, sazi d'ogni gloria, punti dal desiderio di più epiche gesta, agitati da sogni troppo enormi.
Nè l'una, nè l'altra vita, dunque, possono soddisfarci appieno. Da una parte noi vogliamo troppo vivere il sogno della vita, in qualche monastero dell'intelligenza, poveri «abstracteurs de quintessence» e macinatori di vocaboli, e dall'altra non ci sentiamo inclinati nè alla vita del fatuo Don Giovanni, nè a quella del rozzo Giovanni Aguto o del ciarlatore demagogo, non vogliamo perdere la nostra purezza fra le nausee del facile epicureismo o fra gli sterpi e gli escrementi della vita pubblica. Se l'una vita ci appare vuota, lontana, estenuata, labile, l'altra ci sembra ristretta, povera, grossolana, non profonda. Il mondo interno è così bello e meraviglioso ma tanto aereo! il mondo esterno è così solido e vivo ma tanto sordido!
Non ci spaventeremo però di questo dualismo schematico: non siamo di fronte a un dilemma. Io ho parlato di vita interna e di vita esterna ma non c'è l'atto interno che non abbia una sua manifestazione esterna, e non c'è l'azione esterna che non sia preceduta o accompnata da qualche elaborazione interna.
L'unione tra il mondo dello spirito e quello delle cose è continua e costante. Anche qui la differenza è nella misura. Noi diciamo interna quell'azione in cui il fatto esterno non è predominante, esterna quella in cui l'elemento interno è meno visibile o meno importante. Ma ogni azione che uno di noi compie è intrecciata di fili che provengono da tutti e due i domini comunicanti e l'esteriore, riproducendosi immaginato, produce l'interiore, e l'interiore, proiettandosi fuori, modifica l'esteriore.
Non c'è, dunque, nè azione pura, nè pensiero puro: ci sono degli uomini sopratutto pensosi e degli uomini sopratutto attivi. Ma a noi tocca rendere questa unità dei due mondi, non solo più intima, ma produttrice di più alte cose. Finora noi abbiamo sognato ciò che non potevamo fare, o abbiamo fatto quello che non valeva la pena d'esser fatto. Facciamo che i nostri sogni possano farsi realtà, che la nostra azione sia ampliata e nobilitata dalle nostre meditazioni. Facciamo che agli uomini delle parole e agli uomini del fatto succeda colui che, simile a Dio, del verbo faccia cosa.
La scienza, come ho detto, è un avviamento a codesto fine. Essa rappresenta però il tentativo di fare la vita esterna dominatrice dell'interna, di asservire lo spirito alle cose, cioè di pensare quello che c'è e di modificare faticosamente una parte di questo reale per i più bassi bisogni. Ma l'azione scientifica non può più bastare al nostro io furibondo e impaziente. Non può bastare quel suo lento e complicato dominio sulle cose, recinto di barriere e ridotto a puro servigio dell'animale.
Ora il nostro volere è di sostituire e all'azione verbale del dilettante e all'azione povera del pratico e all'azione meschina dello scienziato, quel modo di azione magica che consiste nel far reale il mondo dell'idea, nel rendere esterno e concreto ciò ch' è interno e in parole, nel riuscire, insomma, a che la volontà crei il voluto, senza intermediari e senza ostacoli.
Strano e meraviglioso parrà ad ognuno il mio sogno. Ma si pensi ch'è questo l'unico sogno degno di un uomo, l'unico sogno che tutti gli altri abbraccia e comprende, il sogno sovrumano che gli uomini donarono agli Dei e che ora, dopo la morte degli Dei, spetta loro in eredità.
E colui pure che l'amasse penserebbe ch'è destinato a rimanere un sogno per sempre. Ma il tenace sognatore errerebbe. L'azione magica non è impossibile: è, semplicemente, un problema di cultura psicologica, il problema della potenza della volontà sulle intuizioni. La volontà può cangiare ciò che giace nel mondo passivo delle rappresentazioni e siccome queste equivalgono a quelle che si chiamano cose, la volontà agisce sulle cose. Il Taine chiamava la sensazione un'allucinazione vera, ma non so come si potrebbe parlare di allucinazione falsa. Colui che vede un albero e colui che crede vederlo provano le stesse e identiche sensazioni. L'allucinazione diventa propriamente tale quando scompare e ci accorgiamo che la cosa non esiste più, non ha quel carattere di persistenza che si attribuisce ai fatti reali. La suggestione ci ha già mostrato per uno spiraglio le meraviglie della potenza della volontà. Se noi continuiamo a renderla così forte niente ci resisterà. Noi che possiamo far sentire voci che non sono emesse, veder luci che non sono accese, ferire corpi che non sono accostati potremo ottenere altri prodigi.
Altre più misteriose potenze possono nascere in noi sol che lo vogliamo. Noi saremo così veramente i padroni del mondo e il nostro universo sarà nello stesso tempo ricco come quello di colui che pensa e solido come quello di colui che fa. Nella stessa persona andranno insieme il sognatore e il conquistatore.
Giungeremo al più grande atto problema, alla creazione? Potrà la volontà, non solo agire nelle cose, ma creare nuove cose? Forse avremo anche questa vittoria. Ma ci basta intanto che la volontà possa unire e disgiungere le cose nella realtà, come noi le uniamo e separiamo nella nostra mente. Tutta la nostra immaginazione non è che un nuovo accomodamento, una combinazione più bizzarra, un ampliamento più audace, ma non arriva mai alla creazione del nuovo. Perciò non è necessario, per compiacere la nostra fantasia, che la volontà, oltre che trasformatrice, sia pure creatrice. Bisogna lasciare qualcosa per le leggende dei posteri.
Vedete, amici cari, cosa vuoi dire non voler lasciare il vascello fantasma! Egli ci ha condotto per si straordinari oceani che non ci sentiamo il cuore di tornare a deporre il nostro cuore vagabondo nella piccola casa dei padri. Quando vogliamo scendere nell'azione ci proponiamo atti così grandi e strani che hanno tutte le apparenze di sogni da infermi in delirio. Così è accaduto di me. Non volli scendere nella barca da pesca e nel vascello guerriero, ma volli una galera che mi conducesse all'isola che tutti cerchiamo, senza conoscerla e senza sperarla. E mi venne fatta un'altra più fantastica navigazione verso gli abissi dell'assurdo.
O pilota di tutte le sirti tu vedi come non sian finiti ancora i nostri viaggi. Fra le quattro mura dei nostri ritiri abbiamo ancora altre spedizioni da fare, altri canali da varcare, altri continenti a cui approdare. Noi siamo tutti malati di ulissismo e le parole non ci cadono di dosso neppure a scuoterle con rabbia. Siam condannati, ormai, alla perpetua letteratura, al carcere duro del dizionario.
E quando la stanchezza ci condurrà a terra, quando pur gli occhi buoni ci sorrideranno, quando il letto bianco ci attenderà, con quali dolci, ardenti e infinite lacrime seguiremo con gli occhi il vascello fantasma che si perderà nelle brume, con nocchiero più giovine e meta più lontana!
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